Coronavirus: diario dalla quarantena (part.II)

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Covid-19 un “codice” alfanumerico che fino a poche settimane fa non significava nulla per nessuno e in poco tempo è riuscito a diventare la quotidianità di tutti noi. Se fosse un sentimento sarebbe uno di quegli amori totalizzanti, estremi, malati. Uno di quegli amori che ci spingono a rimane lì sospesi fra la consapevolezza del loro marciume e l’incapacità di dire basta.

E invece è un virus. Il Coronavirus. Un esserino invisibile a occhio nudo e quindi apparentemente insignificante capace di piegare prima l’onnipotente Cina e oggi il mondo intero.

Lo temiamo? Sì da subito. Da quando anche in Italia abbiamo smesso di andare a mangiare il nostro amato sushi o frequentare le nostre estetiste, parrucchiere e stiratrici cinesi, accusandole di essere portatrici di chissà cosa spostano per un volta l’attenzione dallo “sporco negro” al “cinese di merda” (sempre gentili noi altri comunque). Poi all’improvviso senza neppure accorgercene i cinesi siamo diventati noi.

E adesso le strade deserte sono quelle delle nostre città. Sono nostri i luoghi che guardiamo ormai solo nei tg, nostri i bar chiusi. Siamo noi che urliamo alla finestra come avevamo visto fare ai poveri, lontani, abitanti di Wuhan.

Come molti, forse tutti, almeno i fortunati che hanno la possibilità di “lavorare agilmente” da casa, sono chiusa fra le mie quattro mura da settimane. La chiamno quarantena volontaria, isolamento, prevenzione, clausura o #iorestoacasa. Che sia la cosa giusta da fare, l’unica cosa da fare, è fuor di dubbio. Che sia da “uscire pazzi” anche.

Non dipende dal fatto di essere single o in compagnia (che pure aiuta), non cambia di molto (o forse sì non lo so eh) avere bambini urlanti e impazienti, non fa differenza avere una casa enorme o un monolocale. Conta che è arrivato un virus a privarci della nostra libertà, della nostra vita, quella vita che è rimasta incompiuta con cambi di residenza da fare, multe da pagare, rogiti, bambini da sfornare… La nostra vita, le nostre giornate troppo spesso maltrattate, il nostro lavoro troppo poco gratificante, i nostri colleghi sempre troppo poco apprezzati, le nostre ore passate sempre troppo lontane da casa. Che la casa sia qui o altrove.

Il tempo, quella cosa che abbiamo sempre la percezione di non avere e che personalmente anche ora che so di avere non mi sembra di possedere. Tutta la nostra vita non è altro che un ricordo. E sembra impossibile ma è così.

Mi sembra di vivere in uno di quei racconti di mio nonno di quando “c’era la guerra” e si viveva in casa o nelle grotte per fuggire dai bombardamenti. Di quando i bambini vedevano i tedeschi arrivare nelle loro case per prendere vari viveri e identificavano in essi il nemico. Eppure anche allora un nemico c’era e per quanto bastardo, folle, inconcepibile ESISTEVA ed era frutto dell’uomo. Forse è questa la cosa peggiore: non vedere il tuo nemico, non sapere che faccia abbia, non poterlo riconoscere e schivare, non sapere quando smetterà di giocare a questo crudele gioco della morte.

Al gioco che vede persone, che siano anziane o con precedenti patologie non importa, morire sole. Senza nessuno che tenga loro la mano, senza nessuno che possa mai sapere se hanno paura, se piangono, se si rendano conto, se sono pronte. Senza niente, senza un funerale, senza un ultimo saluto, senza neppure sapere perché.

Crediamo di poter vivere in solitaria ma non è così, abbiamo bisogno di condividere un’emozione, un’opinione, una birra. Abbiamo bisogno di parlare ognuno di una cosa diversa come in un’immensa Babele. Abbiamo bisogno dei sorrisi, degli sguardi, delle parole di tutti e di nessuno, di amici e sconosciuti.

Abbiamo bisogno di amare e di litigare, correre e rallentare. Di aria, di pioggia e di sole, di cantare e di stare zitti, di bisbigliare e di urlare, di acculturarci e appassionarci al trash. Degli aperitivi, del cinema, dei teatri, delle amiche, degli amori di una notte, di quelli di una vita, dei genitori, dei fratelli e delle sorelle, dei nipoti e degli zii. Di viaggiare di stare fermi, di emozionarci e di fottercene il cazzo. Di essere liberi, perché la LIBERTÀ è il bene più assoluto che possediamo.

Ora lo abbiamo capito. Quindi Caro Coronavirus vattene pure da dove sei venuto noi promettiamo di essere per almeno altri 70 anni le persone migliori che stiamo dimostrando di essere in questo momento.