Ciao estate 2020, ciao!

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Sono trascorsi esattamente 3 giorni dalla fine delle ferie e l’inizio di questo nuovo “anno”. Si sa, superati i 10 anni si smette di festeggiare il 1° gennaio e si incomincia a farlo a settembre, quando dopo la classica estate al mare si ritorna alla routine. Essì, anche quest’anno le grandi città hanno vissuto il solito “lockdown di ferragosto“, con le strade deserte e le saracinesche abbassate. Forse un pò meno o forse è semplicemente che a questa città semi addormentata ci siamo quasi quasi abituati. Anche, anzi, soprattutto qui a Milano.

E anche io non mi sono tirata indietro dal solito rito italiano delle due settimane centrali di agosto in ferie, lontano dai pensieri del lavoro, dalla palestra, dagli uffici postali e dagli aperitivi fra le zanzare. Ho scelto un’estate italiana, quella così tanto promossa a destra e a manca, semplicemente perché ho avuto paura di andare all’estero. Non ci ho neanche lontanamente pensato a dire il vero.

Avevo in testa una cosa, e ho fatto esattamente quello: ho scelto fortemente un posto lontano dal delirio, lontano dalla festa, lontano addirittura dal mare. Sono stata in Toscana, a Montepulciano nello specifico, persa fra borghi medievali che contano 200 abitanti (d’estate) e infinite file di vigneti verdi.

E ho ritrovato il silenzio assordante della campagna, quella che soffoca con crudeltà con il suo sole di giorno e accarezza delicata con la sua brezza la sera. Quella che fa fare versi striduli e suoni soavi ad esseri viventi che mai avevo visto prima in vita mia.

Mi è mancato il mare. Si, i libri letti sotto il sole a picco seduta su di uno scoglio, quanto la sabbia fredda sotto i piedi quando il sole tramonta. Eppure sono stata felice perché lontana. Lontana per scelta e non perché qualcuno mi imponesse (giustamente) di stare a distanza.

E poi ho ritrovato la Puglia, dove mi sono tuffata nell’abbraccio della mia famiglia, degli amici di sempre. Con cautela e a piccole dosi. Con discrezione. Ma con un’estrema necessità di fare scorta e di riempire i vuoti di questi mesi di distanza.

E non so se sono solo io, ma in questo momento ho la lucidità nel capire cosa sta succedendo intorno a me pari a quella di Bolsonaro che prende in braccio un uomo affetto da nanismo pensando sia un bambino, per intenderci.

E ho paura. Ho paura davvero non più della malattia in sé. Sarà incoscienza o anche un pizzico di fatalismo, che come per tutte le malattie ci sta. Ma ho paura piuttosto di quello che questo virus ha fatto, sta facendo e sicuramente farà ancora per molto alla mia vita, quella di tutti i giorni. A come l’ha stravolta e quanto ancora la cambierà, vuoi per il lavoro vuoi anche semplicemente per la libertà mentale di pensare di uscire e fare davvero tutto quello che desideri. Perché questa cosa non si può fare più. Quella leggerezza non c’è più. E non c’è più per me, che ai 38 ci sono arrivata vivendo il più possibile tutto quello che volevo. Compreso la fila di 40 minuti schiacciata dalla folla in metro dopo il concerto dei Muse. O il brivido di saltare un giorno di scuola per trascorrerlo al mare. Ma soprattutto non c’è più neanche per mia nipote Flavia, che ha 9 anni e tutta la vita d’avanti. E invece non si sa neanche come sarà la scuola a settembre. O a gennaio.

L’incertezza, che spesso desideriamo, non dà più brividi. Provoca solo una grandissima nausea adesso.

Eppure voglio vivere, voglio fare un sacco di cose, riprendere le mie abitudini, vedere gli amici, andare a cena fuori quando e quanto mi pare, andare a ballare (parlo di corsi, non di discoteche ahimè), ricominciare a mettermi il rossetto rosso senza sentirmi a disagio. Di tante cose. Di tutto. Senza questo dubbio che mi attanaglia sempre, in ogni momento della giornata. Cosa accadrà? Potrò vedere i miei amici? Posso abbracciare mia mamma? Posso dare un bacio ai miei nipoti? Posso andare da Zara a guardare le ultime cose in saldo? Posso comprare un paio di scarpe pensando “chissà se le metterò mai!” e “non chissà quando le metterò?”?

Insomma tornare al “prima”. Che era più semplice. O forse no, non lo era. Ma adesso così mi pare.

Eppure l’ho vissuta in pieno questa estate. Con un senso di malinconia e uno di voglia di rivalsa. Fra le partite del calcio estivo, quello dei grandi eventi che ti vien voglia di vederlo solo per avere la scusa di guardarlo in compagnia e le chat con le amiche, sparse in giro per l’Italia e no. I messaggi scambiati con quelle alle prime armi con pappe e dentini e quelle che ancora sperimentano nuove forme di accoppiamento (un bel mix di cui sono molto orgogliosa, lo ammetto). Fra la voglia di tornare a casa e la voglia di rimanerci, a casa. Con la solita confusione mentale che ogni terrone vive a fine estate.

Mi sono sentita viva, nonostante la mascherina.

E sono ritornata qui, a Milano, la città che ho scelto 10 anni fa. Con un tailleur amaranto anni ’80 a cui mia mamma ha scucito le spalline, una domanda che non mi ero mai fatta prima sulla scelta di cui sopra e se il suo senso è ancora valido dopo 10 anni appunto, e tanta, tantissima voglia di scoprire cosa succederà. E questo non con paura, ma con un’incredibile curiosità.