Ne usciremo a pezzi, non migliori

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La domanda su come saremmo usciti da questa emergenza è stata una delle più ricorrenti, fin da subito. Risposte e ipotesi variavano in base alle chiavi di lettura, ai momenti e alle percezioni, spesso sbagliate. Perché ad inizio marzo eravamo convinti di uscirne in questi giorni, poi i tempi dilatavano, ora sappiamo che nella peggiore delle ipotesi potremmo ritrovare normalità addirittura l’anno prossimo.

Una nuova normalità, più frenetica, vorace, legittimamente cattiva per alcuni. Perché abbiamo perso cari, lavoro, momenti importanti, tempo. Soprattutto tempo. Il problema più grosso sta, appunto, nella ricollocazione personale nel nuovo tempo che il Coronavirus ci ha imposto.

Non siamo più inseriti nelle strutture che scandivano la nostra stagionalità: dagli uffici alle scuole, banalmente anche la serie A, vediamo sbocciare la primavera dentro casa e perderemo anche l’estate, o ne vivremo solo gli aspetti più fastidiosi. E tutto questo ci abbrutisce, non riusciamo più a reagire o lo facciamo nel modo sbagliato. Il confronto con la nostra solitudine s’è fatto impietoso: non facciamo le cose che ci eravamo prefissati, non cerchiamo conforto negli altri e non lo siamo per nessuno.

Ci scopriamo soli, non solo perché ce l’hanno imposto.

Ci svegliamo, chi può farlo lavora da casa senza la compagnia e il sorriso dei colleghi, sentiamo chi dobbiamo senza dirgli che ci manca, leggiamo libri che non abbiamo voglia di finire, guardiamo serie o film che ci annoiano e ce ne andiamo a dormire consapevoli che da lì a qualche ora faremo lo stesso. Ci sentiamo impotenti nel fare il poco che potremmo. Quando guardiamo fuori da noi stessi c’è solo rabbia. L’unica fase 2 percettibile, al momento, è quella di reazione comunitaria all’emergenza. I messaggi di speranza e solidarietà sono finiti, nessuno più canta dai balconi, nessuno più vuole intrattenere, allietare, c’è solo noia e alienazione. C’è chi se la prende col governo, chi idolatra Conte, chi lo mette su PornHub, c’è Salvini che riesce a fare il Salvini anche adesso. C’è la mafia che al sud ci ricorda di essere lo Stato, c’è Mattarella che mi è sembrato il più solo di tutti.

C’è una tartaruga nel giardino del mio palazzo che sembra essere l’incarnazione di questo tempo: è sola, si muove lenta e sempre uguale solo per mangiare; il paradosso di Zenone è che pare vada comunque più veloce di me, che mentre mi perdo in questo o quel pensiero l’ho persa con lo sguardo.

E’ impossibile oggi ipotizzare quale sarà il dopo, gli scenari appaiono desolanti, gli attori desolati. In un’intervista di questi giorni Guccini dice che non ne usciremo migliori, perché “[…] gli uomini non imparano. E’ nella natura umana il dimenticarsi presto delle tragedie passate per riprendere la vita di sempre”. Mi trova d’accordo, come per quasi ogni cosa uscita dalla sua penna o dalla sua bocca.

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Matteo Muoio, detto Cile

Ci dimenticheremo di chi ha perso tanto, tutto, di chi è arrivato a dare la vita per salvarne altre, di chi non ce l’ha fatta. Gli individualismi che già caratterizzavano le nostre vite saranno acutizzati in nome di un annullamento dell’Io che troviamo solo nel rapporto con l’altro, anche se dell’altro ci importa meno. Avremo fretta di ritornare a com’era prima, fretta di riprenderci quello che ci è stato tolto, fretta di ricominciare dove avevamo interrotto. Faremo finta di non accorgerci di un mondo tramortito, cambiato. Ci sentiremo vinti senza vincitori cui accanirci, a consolarci sarà il sapore tutto nuovo della birra con gli amici. Ci presenteremo affamati ad un buffet semi-vuoto, pronti a scagliarci con chi è riuscito ad aggiudicarsi due tozzi di pane in più.

Ne usciremo a pezzi, forse senza consapevolezza di doverli ricomporre. O senza il coraggio.