Ci sono nomi che non si pronunciano: si sussurrano. Yves Saint Laurent è uno di questi. Ha la grazia di un profumo ben dosato, la forza sottile di uno sguardo deciso, e quella rara capacità — sempre più rara — di scrivere rivoluzioni con la stoffa.
Eppure, Saint Laurent non ha mai gridato. Ha semplicemente fatto. Ha preso lo smoking maschile e lo ha posato addosso a una donna. Ha tolto i busti, alzato gli orli, lasciato nuda la schiena. E in ogni gesto, ha riscritto il significato stesso di eleganza.
Per me, Saint Laurent è l’abito che dice “sono libera” senza bisogno di aggiungere altro. È l’incontro perfetto tra arte e sensualità, tra corpo e pensiero. È il motivo per cui molte donne, me compresa, non smettono mai di cercare quel tipo di potere: silenzioso, raffinato, viscerale.
In questo articolo racconterò la storia di Yves e della sua maison: da ragazzo prodigio chiamato a succedere a Dior, alla nascita del marchio che ha insegnato a milioni di donne che si può essere sensuali anche con un taglio maschile. Dalle muse iconiche alle collezioni scandalo, dai quadri di Mondrian ai tailleur da battaglia: Saint Laurent non ha mai disegnato solo moda. Ha disegnato identità.
E lo ha fatto con la grazia di chi non cerca il clamore. Ma lascia il segno.
Le origini: il talento precoce e l’eredità di Dior
Prima che diventasse Saint Laurent, era Yves. Un ragazzo timido nato a Orano, in Algeria, con il talento per il disegno e l’istinto naturale per l’eleganza. Disegnava abiti da sera fin da bambino, ritagliando figurini come altri ritagliano soldatini. A 17 anni si trasferisce a Parigi e frequenta la Chambre Syndicale de la Couture. Non passa inosservato: le sue linee sono già pulite, sensuali, moderne. Ha qualcosa di diverso.
Nel 1955, a soli 19 anni, Yves entra nell’atelier Dior, presentato come giovane assistente. Christian Dior, già all’apice della sua fama, intuisce subito quel talento fragile e potentissimo. Quando due anni dopo muore improvvisamente, è proprio Yves — appena ventunenne — a prendere le redini della maison.
È un debutto leggendario: nel 1958 firma la sua prima collezione, la celebre “Trapèze”, accolta con applausi mondiali. La stampa lo incorona enfant prodige. Eppure, il successo non protegge Yves dalla pressione, né dalla rigidità di un sistema che lo voleva statico, prevedibile, legato a codici antichi. Ma Yves, pur rispettando l’eleganza classica di Dior, aveva già in mente un’altra donna. Una più libera, più urbana, più viva.
Nel 1960, dopo aver presentato una collezione considerata “troppo giovane”, viene licenziato. È uno shock. Ma anche un’opportunità. Di lì a un anno, insieme al compagno e socio Pierre Bergé, nasce la maison Yves Saint Laurent. La sua. Finalmente.
E da lì, la moda non sarebbe mai più stata la stessa.
La visione: YSL e la moda come strumento di emancipazione
Yves Saint Laurent non voleva soltanto vestire le donne. Voleva liberarle. Liberarle dai bustini, dalle gonne rigide, da quella femminilità passiva fatta solo di volants e attese. La sua donna era consapevole, urbana, colta. Sapeva cosa voleva — e sapeva anche come indossarlo.
Così nacque lo smoking da donna, nel 1966: un gesto rivoluzionario e sottilmente scandaloso. Non era solo un tailleur nero. Era un modo per reclamare spazio, potere, silenzio e autorevolezza in un mondo ancora declinato al maschile. C’era qualcosa di erotico e insieme intellettuale in quella giacca strutturata che seguiva il corpo senza esibirlo, in quel pantalone tagliato come un’armatura elegante. Un gesto semplice, eppure radicale. Come solo i grandi sanno fare.
A differenza di Versace, che ha sempre celebrato la sensualità esplosiva, il corpo esposto, la bellezza che abbaglia, Saint Laurent lavora sulla seduzione per sottrazione. Il suo erotismo è mentale, sussurrato, inafferrabile. Dove Versace urla “guardami”, Saint Laurent sussurra “scoprimi”.
E se pensiamo a Prada, con la sua estetica concettuale e cerebrale, troviamo un’affinità di visione, pur nella distanza stilistica. Prada e Saint Laurent condividono il gusto per la donna autonoma, intelligente, sfuggente. Ma se Prada è analitica, quasi filosofica, Saint Laurent è più viscerale, teatrale, profondamente emozionale.
Il suo stile androgino non era mai neutro. Era una provocazione estetica che conteneva una presa di posizione politica. Le donne di Yves non si travestivano da uomini: si prendevano il diritto di essere tutto quello che volevano.
E mentre lo facevano, lo facevano con uno stile impeccabile.
Impatto culturale: arte, società e scandali
Yves Saint Laurent non ha mai disegnato solo vestiti. Ha costruito immaginari. E lo ha fatto usando tutto ciò che lo ispirava: l’arte, la letteratura, l’Africa, la danza, il corpo femminile — in tutte le sue forme. Le sue collezioni erano veri e propri viaggi nella cultura visiva e sensuale del Novecento.
Nel 1965 arriva l’abito Mondrian: un tubino bianco con blocchi rossi, blu e neri, ispirato ai dipinti dell’artista olandese. Semplice in apparenza, rivoluzionario nei codici. Un dialogo tra moda e arte che anticipa tutto: il concetto di contaminazione, l’arte come stampa, la moda come veicolo di cultura. Da lì in poi, YSL creerà intere collezioni ispirate a Matisse, Picasso, Braque, Van Gogh. Perché il tessuto, nelle sue mani, era tela e messaggio insieme.
Ma Saint Laurent non si è fermato lì. Ha giocato con il corpo come simbolo, soggetto, territorio. Memorabile la campagna pubblicitaria del 1971, dove lui stesso posa nudo per lanciare la sua prima fragranza maschile, YSL pour Homme. Un’immagine potente e spiazzante, che ribalta completamente la dinamica dello sguardo: l’uomo come oggetto di desiderio. Scandalo, ovviamente. Ma anche avanguardia pura.
Le sue muse — da Loulou de la Falaise a Catherine Deneuve, da Betty Catroux a Paloma Picasso — non erano solo modelle. Erano compagne creative, riflessi estetici, alter ego stilistici. Donne forti, libere, fuori dagli schemi. Saint Laurent non le plasmava: le esaltava. Creava per loro abiti che non servivano a sedurre, ma a dominare la scena.
La società reagiva, a volte applaudendo, a volte indignandosi. Ma una cosa era certa: quando Saint Laurent parlava, anche attraverso un abito, lo faceva con la precisione di un artista e il coraggio di un rivoluzionario. E ogni collezione diventava una pagina del costume, un atto di rottura, una lezione di stile e pensiero.
La continuità: Anthony Vaccarello e lo YSL del presente
Raccogliere l’eredità di Yves Saint Laurent non è cosa da poco. Eppure, da quando nel 2016 Anthony Vaccarello è stato scelto per dirigere la maison, quel lascito è tornato a vibrare con una forza nuova — moderna, essenziale, profondamente sensuale.
Vaccarello ha capito una cosa: non serve reinventare Saint Laurent, basta amplificarne il desiderio. Lo ha fatto rendendo ancora più audaci le linee, più taglienti i tagli, più scolpite le spalle. Il suo YSL è una silhouette di luce e ombra, di corpo scolpito, di sguardo che non chiede permesso.
La sensualità qui è un linguaggio grafico. Il nero domina, il corpo non si nasconde mai. C’è il glam, certo, ma anche un rigore preciso, chirurgico, raffinato. Gli abiti da sera sembrano costruzioni architettoniche, i blazer sono armature leggere, le trasparenze si alternano a lane maschili, in un continuo gioco di equilibrio tra forza e fragilità.
Eppure, Vaccarello non tradisce mai l’origine. Lo smoking da donna è ancora lì. I riferimenti agli archivi sono costanti. Le sfilate — spesso in notturna, davanti alla Torre Eiffel — sono spettacoli di potere e bellezza, quasi cinematografici. E il nome Saint Laurent, anche senza Yves (come voluto da Hedi Slimane in una precedente direzione creativa), continua a dire tutto.
Nel panorama della moda contemporanea, dominato da hype, loghi e provocazioni effimere, YSL rimane una roccia di stile coerente e consapevole. Parla ancora alle donne forti, indipendenti, che non hanno bisogno di troppi orpelli per farsi notare.
Basta una giacca. Un tacco. Uno sguardo sicuro.
Il coraggio di essere eleganti, sempre
Yves Saint Laurent ha fatto qualcosa che pochi altri, nella storia della moda, hanno saputo fare davvero: ha dato alle donne il potere di scegliere chi essere, e ha insegnato loro che l’eleganza non è mai una questione di fronzoli, ma di intenzione.
Ha dimostrato che si può essere sensuali anche in giacca e cravatta. Che la bellezza non deve mai soffocare. Che indossare uno smoking può essere un gesto politico. E che anche nel silenzio — quello delle linee pulite, dei colori netti, degli sguardi decisi — si può fare rumore.
Per me, Saint Laurent è tutto questo: un’educazione allo stile, ma anche all’autonomia. Un’estetica che non ti spiega, ma ti definisce. E che ha il coraggio, oggi come ieri, di non chiedere mai il permesso per entrare in scena.
Perché, in fondo, non si nasce eleganti. Si diventa Saint Laurent.