18 maggio

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Voglio provare a fissare nero su bianco, pixel su pixel le emozioni di questa giornata speciale. Una data che ricorderemo per sempre, di quelle date che finisci con l’associare con un ricordo in particolare, un ricordo probabilmente stupido e insignificante ai fini della nostra vita. Eppure rimarrà indelebile, di fianco ai ricordi che costituiscono le pietre miliari della nostra identità. E così, a poche ore dalla fine di questa giornata, mi chiedo quale sara il mio ricordo di questo 18 maggio.

In una giornata dedicata per la prima volta a me, ho pensato a tantissime cose. Paradossalmente nel lunedì della ripresa generale, a me spetta un giorno off. Quasi fosse fatto apposta, per concedermi il tempo e il lusso di riflettere davvero. Si certo, in questi mesi l’ho fatto, ma spesso la quotidianità lavorativa mi ha portata molto lontano. Nel bene e nel male.

Oggi volevo vivere un momento di silenzio, di tranquillità. Per capire se avevo più paura della malattia, questa maledetta pandemia, o di ritornare a vivere. E ho deciso, o meglio, ho capito un’ovvietà, e cioè che la vita va avanti e non si può rimanere indietro. Ho capito anche quale sarà il mio ricordo del 18 maggio, da custodire gelosamente fra i ricordi più importanti della mia vita.

Sarà questa passeggiata, questo giretto serale in compagnia di Ivo, che ancora fa fatica, da bravo abitudinario, a cambiare il percorso che abbiamo fatto per due mesi entro i 200 metri concessi dal decreto legge che ci ha cambiato la vita.

Perchè o meglio, cosa di questa passeggiata ricorderò? Le risate di quattro ragazze con mascherina e pancia scoperta dai micro top che dichiarano ufficialmente iniziata l’estate? Il ragazzo sulla ciclabile che si muove lento sul suo monopattino canticchiando una canzone? Le mascherine abbassate per bere un calice di vino della coppia seduta ai tavolini di un’enoteca finalmente riaperta? I suoni gutturali e gli abbracci gioiosi dei giovani cheyenne fuori dal bar? La sciura sotto il casco della parrucchiera all’angolo di casa mia?

O questo dolore misto a rabbia che mi si contorce lo stomaco quando razionalizzo che nella mia visuale c’è solo gente con una mascherina sul viso?

Non lo so. So che oggi davanti alle saracinesche aperte, al sorriso di Nicola che mi ha preparato il suo caffè dopo 60 giorni, alle risate dei bambini al parco, al saluto della cassiera dell’Esselunga che è tornata al suo mascara azzurro, all’idea di organizzare una serata per pochi intimi nel giardino di un’amica, mi sono sentita felice. Nonostante le imprecisioni, la goffaggine mia e di molti altri nell’abituarci a questa nuova normalità, nonostante gli sbagli di cui spero non pagheremo le conseguenze in modo troppo caro. Ho pensato a tutte le volte in cui ho avuto paura per me e per i miei cari. A tutte le volte che ho pianto e ho pensato fosse solo un incubo. A quelle in cui ho pensato “non ce la faremo mai“. A quando il suono dei ventilatori nei reparti di terapia intensiva trasmesso in tutti i servizi giornalistici passati in tv mi è entrato nella coscienza, non solo nelle orecchie. Mi sono sentita, per la prima volta dopo tanto tempo, leggera. Ho cercato un angolo isolato dell’area cani, ho tirato giù la mascherina e ho respirato profondamente. E ho sussurrato a bassa voce “Bentornata vita. E, speriamo bene.”